Uno dei motivi più frequenti per cui tante persone scelgono di iniziare una terapia è la risoluzione di un sintomo psicologico. Alcuni esempi possono essere l’ansia per una situazione specifica (es. affrontare un esame), pensieri ossessivi, comportamenti compulsivi, fobie, irritabilità persistenti, preoccupazioni di vario tipo che compromettono la quotidianità.
Davanti alle difficoltà portate dal cliente, il terapeuta, a seconda dell’approccio teorico che adotta e dei metodi che ritiene opportuno utilizzare, può intervenire su più livelli.
Lavorare sul sintomo
Un primo livello di intervento può essere quello della “riduzione del sintomo”: attraverso la terapia lo spieghiamo, capiamo quando è nato, in che circostanze si è sviluppato, in quali momenti e in che modi si manifesta. Lo mettiamo sotto la lente di ingrandimento, provando a rispondere alla prima richiesta: “Fix it” – riparalo, aggiustalo.
“Non mi piace avere questa paura”,
“non voglio più scappare dai luoghi affollati”,
“non voglio più essere così triste”.
Perché non voglio questo sintomo, non fa parte di quello che voglio essere.
Una richiesta più che legittima, come la sofferenza di chi la porta. E ci sono tecniche che possono risultare molto utili in questo senso: il sintomo viene preso, analizzato e, con una precisione quasi chirurgica, tagliato via. Se l’operazione funziona, può sembrare sufficiente questo.
Parte del nostro racconto
A volte però il sintomo ritorna. O non sembra andare via del tutto. O si trasforma in un altro sintomo, di natura diversa. Ci parla di un disturbo, più profondo. E da “elemento da asportare” ci si rende conto che è una storia da ascoltare. Ci parla di qualcosa di noi, ci racconta di una scelta. Forse quel disturbo è stata la strada più percorribile in un preciso momento del nostro viaggio. Forse è stata la scelta più “elaborativa” – quella che ad un certo punto della nostra vita, con le forze e le possibilità a nostra disposizione, ci ha permesso di affrontare una situazione. E per qualche motivo (che probabilmente non ci è troppo chiaro) continua a tornare.
Comprendere cosa ci dice di noi può essere quindi il secondo passo: andiamo in profondità, perché esploriamo in che modo il disturbo è parte di noi, in che modo fa parte della nostra visione e costruzione di noi stessi, degli altri e del mondo.
La domanda che ci possiamo porre: è sufficiente?
Abbiamo descritto i sintomi, abbiamo capito come si manifestano, abbiamo compreso la storia del disturbo e ne abbiamo ascoltato le ragioni. Manca qualcosa?
Una storia di relazioni

Il riflettore si allarga ancora una volta: da luce sottile di un microscopio con cui abbiamo guardato il sintomo, a “faro seguipersone” puntato su di noi e sulla nostra storia, fino a diventare proiettore ampio che illumina tutta la scena del nostro racconto. E in questa scena ci sono altri attori.
Cominciamo a realizzare che noi, le nostre scelte, i nostri sintomi e i nostri disturbi, facciamo parte di relazioni.
La nostra sofferenza ha sempre una dimensione relazionale. Quel disturbo, che qualche volta riusciamo a tenere nascosto agli altri, ci dice qualcosa anche sul nostro modo di stare con gli altri, di pensarli, di farne esperienza.
Ragioniamo sulle implicazioni che un disturbo ha nelle nostre amicizie, con i nostri genitori, con i nostri partner, con i nostri figli.
E un attacco di panico in un luogo affollato non è più solo qualcosa da eliminare, ma anche il racconto del desiderio di fare qualcos’altro, di non essere immersi in relazioni che non ci piacciono. Forse ci parla di solitudini, di paure e ansie per il futuro, di pressioni in famiglia, di responsabilità difficili da sostenere. O forse mille altre cose, perché ogni sofferenza, ogni persona e ogni modo di vivere una relazione ha qualcosa di unico.
E nella terapia (che è anch’essa una relazione) ci sperimentiamo in modi diversi.
Riflettiamo su altre possibilità, altre scelte, altri modi di stare con gli altri.
Qui avviene un cambio di scena: si mettono a verifica ipotesi nuove.
E la storia inizia a cambiare, prendendo direzioni che all’inizio, probabilmente, non immaginavamo percorribili.